Arti e mestieri
Prima dell’avvento dell’industria della fisarmonica, le risorse economiche del nostro paese erano costituite solo dalla pesca, dall’emigrazione e, in minor misura, dall’artigianato. Le attività produttive erano rivolte a soddisfare quei pochi elementari bisogni di una popolazione per lo più povera.
Buoni ebanisti erano Medeu de Grillanzoni, Galinelli, Millanta, El Ruscettu e Giuseppe Dubbini che producevano principalmente infissi, mobili vari e da cucina. Quelli da camera, più raffinati, venivano commissionati a Ciro, Spadari e Cuccumetta, falegnami che operavano a Sirolo dove, essendo scarse le possibilità di sfruttare la ricchezza ittica del mare, data l’ubicazione del paese, era rivolta una particolare attenzione al settore manifatturiero.
Numana ebbe anche un cantiere navale con Gervà de la Mammana, detto anche il
Calafato, buon costruttore e calafatore di barche e "patane". Svolgeva il suo lavoro nel locale a piano terra del Palazzo Comunale, dove in passato c’era l’osteria di Remigiu. Quando la Frontalini occupò tutto il piano terra, Gervà si spostò nella sua
casetta in fondo al vicolo di Gadì. Le opere murarie venivano eseguite da capaci muratori che ebbero il loro antesignano in Castellani, emigrato poi in Argentina. Una piccola impresa edile l’aveva Settimo che fra i suoi manovali annoverava Montebellu, buon capomastro, che, dopo essere stato associato per un periodo con Vincenzo Ceccarelli, continuò la sua attività fino ad una trentina di anni fa.
Fra tutti gli artigiani spiccavano senz’altro, per numero, i calzolai. Le scarpe erano confezionate a mano; ogni Numanese, uomo o donna, ne aveva solo un paio, detto "della messa o della domenica". Nei giorni feriali, infatti, si usavano gli zoccoli, le pianelle, con suole di sughero per “tenere caldi i piedi" da portare solo in casa, o le cioce di stoffa che venivano rinforzate, nella parte a contatto con il terreno, con gli scarti della gomma dei pneumatici. Chi abitava lontano dal paese, per non consumare quel "bene prezioso", percorreva il tratto di strada che separava la propria abitazione dalla periferia del centro abitato con calzature di fortuna che sostituiva con le "pregiate" scarpe generalmente all’altezza della casa de "‘Rmelina" o de “‘Nnetta de Surgentò". La stessa cosa avveniva al ritorno.
Maestri calzaturieri erano Gadì, che in estate arrotondava le entrate facendo il bagnino, Ruschiò de la Capuccina, Salvatore Palombini con il figliastro Vincè il quale per la sua abilità era conosciuto come "el calzularu", Fischiettu, Reginaldo Svergola che, dovendo mantenere una famiglia numerosa, faceva di mestiere il sagrestano e lo zio del Vescovo Vincenzo Radicioni, Lisà de ‘Ldemira, uomo allegro e buontempone, sempre in vena di scherzi. L’ho conosciuto bene perchè, all’età di dieci - undici anni, facevo il garzoncello presso di lui insieme a ‘Lfredu del Canepì e a Giuannì de Crucera.
Fornitore di cuoio di tutti questi artigiani era Emilio Radicioni che abitava in piazza dove ora c’è la boutique di Giancarlo.
Verso gli anni 1925 - 1930, il lavoro di calzolaio incominciò a declinare perchè i negozi di Lunzotti e di Gisella fornivano scarpe e ciabatte prodotte dalle prime fabbriche maceratesi.
Anche i barbieri ebbero parte attiva nell’economia numanese. Uno dei primi fu Gigiu de Caputondu che praticava il suo mestiere dove ora abita l’architetto Fioranelli; quando poi il locale fu comperato da Gisella per avviarvi un’attività commerciale, egli si sposto nella casetta di fianco all’attuale Hotel Majestic. Gigiu, oltre che al taglio dei capelli, provvedeva all’affilatura non solo dei suoi “attrezzi del mestiere" ma anche
dei coltelli e forbici dei compaesani con due mole che aveva sistemato nel sotterraneo. lo vi andai, come garzone, all’età di otto - nove anni; dovevo mettere e togliere l’asciugamano ai clienti e spazzare il pavimento dopo che il "maestro" aveva provveduto all’acconciatura. l frequentatori più assidui ed abituali erano, per lo più, i contadini che la domenica venivano a Messa e approfittavano dell’occasione per andare dal barbiere. Sulla salvietta bianca si poteva assistere alla "corsa dei pidocchi"; ce n’erano tanti, in quei tempi, quante le pulci che la notte facevano il salasso del sangue. Ricordo che quando entravamo nella cella campanaria, vicino alla Chiesetta, per suonare le campane, venivamo assaliti da centinaia di questi fastidiosi insetti, forse lasciati dai cani che vi andavano a dormire.
Un altro barbiere era Ugu de Lunzotti, coadiuvato dal figlio Miliu; insieme gestivano pure un emporio dove si trovava di tutto. Poiché in vetrina non riuscivano ad esporre tutti gli articoli, avevano creduto opportuno apporre un cartello con su scritto:
"Chiedete all’interno ciò che non vedete in vetrina"!
Ugu cantava anche le "secule", in Chiesa, per i funerali e "l’ottavario dei morti", data la sua buona voce baritonale. Per garzone aveva Ceppì che, in seguito, si mise in proprio. Decio della Scala, invece, era un rinomato sarto con clientela anche anconetana. Pure lui, per arrotondare, gestiva un negozietto di mercerie.
Era normale, per sbarcare il lunario, svolgere altre attività, sia pure non collaterali, come favevano el Pustì e el Salaru che, oltre ad attendere al consueto lavoro di sartoria, fungevano l’uno da postino, l’altro da venditore di sale.
Il Versace della situazione era Finellu, uomo allegro e gioviale. Si diceva, non so se
fosse vero, che, quando andava in campagna a prendere le misure per confezionare un vestito ed il cliente si trovava sopra a un albero, non lo faceva scendere perchè gli bastava uno sguardo a "occhio e croce". La sua attività fu in seguito continuata dal figlio ‘Rturu.
Brave erano le sarte: Cecchina de Lella, Checca de Pallotta e successivamente, Vincenza de ‘Rmelina che dirigeva un laboratorio con diverse apprendiste, molto giovani, mandate dalle madri, oltre che per imparare il mestiere, anche per non stare in ozio. Da sottolineare il fatto che queste non avevano mai più di nove - dieci anni. Santa de Caputondu faceva la magliaia ed aveva una macchina, per confezionare calze e maglie, molto moderna per quegli anni, riuscendo così a realizzare i lavori in tempi molto più brevi rispetto a chi sferruzzava.
Il lavoro della "matarazzara" divenne molto importante dopo la caduta in disuso dei pagliericci e dei sacconi di crine presenti, fin dalla fine del 1800, nelle famiglie più abbienti. La lana, prodotta abbondantemente in Argentina a prezzo accessibile, era uno dei pochi tesori che gli emigranti si potevano permettere di riportare in patria insieme ai risparmi. Fu così che nel primo decennio del 1900 si diffuse l’uso dello strapunto. Nel 1916, a soli dieci anni di età, seguendo la madre Adele, iniziò la sua artigianale attività Ida del Mammulu che prestava la sua opera a domicilio; ella divenne ben presto la più rifinita e richiesta professionista del settore.
Il cliente faceva trovare l’intima ben pulita, l’imbottitura lavata e "sgardizzata" a mano. Quando tutto era pronto, lei arrivava per rifare "el stramazzu" e per poter completare il lavoro in giornata si fermava a pranzo presso la famiglia. In seguito, con il progresso, fu possibile disporre anche dello scardasso che era montato all’estremità di una panca sulla quale la "matarazzara" si sedeva cavalcioni e, manovrando la mano, faceva passare la lana tra gli aculei di ferro per pettinarla e liberarla dalle impurità. In questo modo si diminuivano il lavoro delle donne e la confusione in casa; il prodotto finale risultava sempre preciso e perfetto con grande soddisfazione dell’artefice e della cliente. Era punto d’orgoglio, soprattutto per le spose, avere nel proprio corredo la trapunta ed il materasso confezionati da Ida.
Fabbro rinomato fu Dumè Monaco, la cui attività venne continuata dal figlio Cesarì, vero artista del ferro; Peppe Monaco, invece, impiantò un’officina meccanica che poi si espanse con i figli.
Con l’avvento dell’organetto diversi numanesi, Frontalini, Maglieri, Paoloni, Culiu, Manti e Baldoni, si dedicarono con successo a questa attività e continuarono anche dopo lo sviluppo della Frontalini.
Maglieri e Paoloni, oltre che organettari, con autocarri acquistati dai residuati della guerra 1915-1918, fecero anche i trasportatori lavorando sia a Numana che fuori. In particolare ricordo il camion di Maglieri che, d’estate, era utilizzato come autobotte ed aveva, nella parte anteriore, un innaffiatoio, dal getto di circa due metri di raggio, per bagnare le vie centrali del paese procurando grande gioia a noi ragazzi che ci facevamo cospargere d’acqua per ottenere refrigerio.
Molto importante per le nostre cittadine fu, nel secondo decennio del ‘900, il servizio di autobus, ideato e sovvenzionato dal signor Napoleone Bianchelli, gestito dai fratelli Cesare e Nazzareno Biondini di Sirolo. Il primo collegamento con Osimo Stazione svolgeva prevalentemente il servizio postale; i pochi passeggeri erano solo gli emigranti. Successivamente Numana e Sirolo furono collegate ad Ancona attraverso "la strada del Monte", la provinciale del Monte Conero. Il lunedì mattina la prima corriera partiva alle ore cinque per permettere alle "lavandare" della frazione San Lorenzo di recapitare, "ai signori d’Ancona", la biancheria pulita.
Progressivamente il numero dei collegamenti aumentò ed il servizio ne trasse giovamento. Alla metà degli anni ‘40 la ditta fu rilevata da Guido Reni, i cui figli ancora oggi ne continuano l’attività con una rete di comunicazione molto più vasta.
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