Il pane fatto in casa
Questo articolo letto sul Resto del Carlino di ieri a firma Davide Eusebi e con titolo
Le Marche lanciano il pane di campagna
Le Marche lanciano il pane di campagna
Dalla prossima settimana gli agricoltori della Vallesina, in provincia di Ancona, potranno produrre e vendere il pane. I consumatori si aspettano un prodotto certificato, genuino e buono, oltre che prezzi alla portata. A proporre la novità per prima sarà una agricoltore donna e panettiera: Elena Bassi, del forno della Cèsola di Staffolo, ma il fenomeno del ‘pane di campagna’ è destinato ad allargarsi a tutte le province marchigiane.
Intanto continua la corsa all’acquisto diretto dei prodotti agricoli da parte dei marchigiani, sia per avere la certezza del prodotto che per risparmiare. Il mercato di ‘Campagna Amica’ di Jesi ha festeggiato un anno di attività con un bilancio positivo: sono stati ventiduemila i cittadini che in questi dodici mesi hanno fatto i propri acquisti nel farmer market degli agricoltori della Vallesina. Ad annunciarlo è la Coldiretti Ancona, in occasione del ‘compleanno’ della struttura che i produttori hanno festeggiato sabato 20 novembre con degustazioni a km zero per i clienti lungo tutto l’arco della giornata. In media durante questi dodici mesi, 1.800 persone al mese hanno fatto la spesa direttamente dagli agricoltori. Una trentina le tonnellate di alimenti vendute. In classifica dominano frutta e verdura fresche di stagione, davanti a formaggi, vino, carne e olio. Con l’ingresso di una nuova azienda ortofrutticola, Alessandro Gabrielloni di Jesi, l’offerta dei prodotti del farmer della Vallesina si è poi allargata alle insalate e minestroni già pronti, mentre sul versante della carne si passerà dal sistema della prenotazione alle vaschette già disponibili. «Il nostro obiettivo non è fare concorrenza ai negozi ma offrire sempre maggiori possibilità ai cittadini, jesini e non, di portare in tavola i prodotti del territorio, di stagione, di qualità e al prezzo giusto. I risultati ottenuti in questo primo anno sono sicuramente soddisfacenti - spiega il presidente di Coldiretti Ancona, Maurizio Monnati - l’ esperienza del mercato di Campagna Amica è una parte integrante del progetto per una filiera agricola tutta italiana controllata dagli agricoltori».
mi ha incuriosito al momento in cui stavo per pubblicare un racconto del Marchetti su come si faceva il pane in casa una volta … e così ho pensato di integrare questa curiosa notizia pubblicata sul quotidiano con la pratica che vedeva qualche decennio fa moltissime nostre mamme e nonne impegnate a fare il pane casereccio …
Durante la mia adolescenza, mi ricordo, il pane si faceva in casa, ed essendo l’ alimento più importante per la famiglia, il giorno fissato per questo eccezionale avvenimento era un giorno di grande festa.
Questa cerimonia avveniva normalmente ogni 15 giorni circa. Era mia madre, Maria de Mariola, che fissava il giorno, e già il giorno precedente, "stacciava" la farina, cioè divideva la farina dalla "sembula" (crusca) preparando così l’occorrente per l’ impasto della mattina seguente. Premetto che quasi ogni famiglia, almeno quelle più abbienti, avevano il sacco di farina in casa (circa 80 kg) che acquistavano direttamente dal "mulinaro" (mugnaio).
Preparata la quantità di farina necessaria veniva riposta nella "conca" (madia) quindi si versava il lievito al centro del mucchio di farina. Il lievito era di circa 200-300 grammi ricavato da un pezzo di massa dell’ impasto precedente, appiattito come una pizza, e fatto essiccare all’aria con sopra l’impronta della croce fatta con la mano, per segnare, forse, la sacralità del pane. Per rimettere i fermenti in attività, prima di essere deposto nel mucchio di farina, veniva sbriciolato e messo a bagno in acqua tiepida.
Inoltre, sempre la sera precedente alla cerimonia, mia madre mi mandava a prenotare il forno da Palmira, con la raccomandazione di accettare solo il secondo forno, più comodo per via dell’orario, perché il primo forno era troppo presto e il terzo forno era troppo tardi. Il forno si trovava di fronte alla mura che porta alla Torre, ma io per non togliere tempo al gioco, chiamavo Palmira dalla strada che porta alla Torre:
"Palmira, Palmiraaa" e dopo varie chiamate finalmente Palmira apriva la porta.
E io: "mamma dumattina fa el pà"
Palmira di rimando: "al primo forno!"
E io: "mamma nun pole al primo fornu", e qui dovevo inventare qualche impedimento credibile per farmi concedere il secondo forno, e alla fine di questo dibattito, a distanza, Palmira mi concedeva il secondo forno.
Il mattino seguente, abbastanza presto, iniziava la cerimonia del pane fatto in casa. Se mio padre era a casa aiutava lui a impastare, altrimenti erano i figli più grandi ad aiutare mia madre ad impastare questa grande massa per ricavare non meno di 15-20 "pagnotte”. Completata questa operazione le "pagnotte" venivano incise sopra con la lama di un coltello per favorire la crescita durante la cottura e poste sopra la "spianatora". Poi mia madre si toglieva la "parnanza" (grembiule), la arrotolava a forma di cuscinetto e se la poneva sopra la testa per collocarci la "spianatora" con le "pagnotte" e in equilibrio, con le mani nei fianchi, venivano portate al forno in anticipo perché la sosta nel forno, al calore, avrebbe favorito la lievitatura prima di essere infornate. Nel pomeriggio le "pagnotte" venivano ritirate, già cotte, ed in casa venivano riposte sopra una tavola rettangolare fissata ad una parete della cucina, bene allineate e coperte con un telo. Naturalmente, attratti dal profumo del pane e dal grande appetito, il desiderio di noi ragazzi era di arrivare subito ad acchiappare una "pagnotta" per addentare almeno i "cudrizzi", (le estremità del pane) ma la risolutezza di mia madre impediva il nostro progetto vietandoci di toccare il pane appena sfornato. Il motivo era che mangiando pane fresco, profumato e appetitoso, se ne sarebbe consumato troppo, quindi, niente pane fresco, almeno per il primo giorno. Era permesso soltanto di mangiare la "crescia", (una pizza rustica) che in qualche rara occasione si aggregava alla cottura del pane per calmare i nostri appetiti e farci contenti.
Questa è la storia e la "cerimonia" del pane fatto a mano in casa, non vi nascondo che quando penso intensamente a quel pane profumato e genuino sento ancora il gradito sapore in bocca.
Questa cerimonia avveniva normalmente ogni 15 giorni circa. Era mia madre, Maria de Mariola, che fissava il giorno, e già il giorno precedente, "stacciava" la farina, cioè divideva la farina dalla "sembula" (crusca) preparando così l’occorrente per l’ impasto della mattina seguente. Premetto che quasi ogni famiglia, almeno quelle più abbienti, avevano il sacco di farina in casa (circa 80 kg) che acquistavano direttamente dal "mulinaro" (mugnaio).
Preparata la quantità di farina necessaria veniva riposta nella "conca" (madia) quindi si versava il lievito al centro del mucchio di farina. Il lievito era di circa 200-300 grammi ricavato da un pezzo di massa dell’ impasto precedente, appiattito come una pizza, e fatto essiccare all’aria con sopra l’impronta della croce fatta con la mano, per segnare, forse, la sacralità del pane. Per rimettere i fermenti in attività, prima di essere deposto nel mucchio di farina, veniva sbriciolato e messo a bagno in acqua tiepida.
Inoltre, sempre la sera precedente alla cerimonia, mia madre mi mandava a prenotare il forno da Palmira, con la raccomandazione di accettare solo il secondo forno, più comodo per via dell’orario, perché il primo forno era troppo presto e il terzo forno era troppo tardi. Il forno si trovava di fronte alla mura che porta alla Torre, ma io per non togliere tempo al gioco, chiamavo Palmira dalla strada che porta alla Torre:
"Palmira, Palmiraaa" e dopo varie chiamate finalmente Palmira apriva la porta.
E io: "mamma dumattina fa el pà"
Palmira di rimando: "al primo forno!"
E io: "mamma nun pole al primo fornu", e qui dovevo inventare qualche impedimento credibile per farmi concedere il secondo forno, e alla fine di questo dibattito, a distanza, Palmira mi concedeva il secondo forno.
Il mattino seguente, abbastanza presto, iniziava la cerimonia del pane fatto in casa. Se mio padre era a casa aiutava lui a impastare, altrimenti erano i figli più grandi ad aiutare mia madre ad impastare questa grande massa per ricavare non meno di 15-20 "pagnotte”. Completata questa operazione le "pagnotte" venivano incise sopra con la lama di un coltello per favorire la crescita durante la cottura e poste sopra la "spianatora". Poi mia madre si toglieva la "parnanza" (grembiule), la arrotolava a forma di cuscinetto e se la poneva sopra la testa per collocarci la "spianatora" con le "pagnotte" e in equilibrio, con le mani nei fianchi, venivano portate al forno in anticipo perché la sosta nel forno, al calore, avrebbe favorito la lievitatura prima di essere infornate. Nel pomeriggio le "pagnotte" venivano ritirate, già cotte, ed in casa venivano riposte sopra una tavola rettangolare fissata ad una parete della cucina, bene allineate e coperte con un telo. Naturalmente, attratti dal profumo del pane e dal grande appetito, il desiderio di noi ragazzi era di arrivare subito ad acchiappare una "pagnotta" per addentare almeno i "cudrizzi", (le estremità del pane) ma la risolutezza di mia madre impediva il nostro progetto vietandoci di toccare il pane appena sfornato. Il motivo era che mangiando pane fresco, profumato e appetitoso, se ne sarebbe consumato troppo, quindi, niente pane fresco, almeno per il primo giorno. Era permesso soltanto di mangiare la "crescia", (una pizza rustica) che in qualche rara occasione si aggregava alla cottura del pane per calmare i nostri appetiti e farci contenti.
Questa è la storia e la "cerimonia" del pane fatto a mano in casa, non vi nascondo che quando penso intensamente a quel pane profumato e genuino sento ancora il gradito sapore in bocca.
tratto da
C'ERA UNA VOLTA UN' ALTRA NUMANA
Essere ragazzi negli anni '30
di Pietro Marchetti Balducci
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