eventuali gravidanze …
Alle donne maritate competeva anche l’arduo compito di amministrare le magre finanze patrimoniali, viste le assenze spesso prolungate dei coniugi impegnati nelle attività marinare. Quando ancora le bambine erano in fasce, i piccoli risparmi, realizzati a costo di grandi sacrifici, venivano destinati all’acquisto della dote. Questa consisteva in un numero minimo di asciugamani, lenzuola ecc. completato da biancheria personale, confezionata in taglie abbondanti in previsione di eventuali gravidanze e quindi di aumento di peso. Al corredo si aggiungevano pezze di stoffa per abiti pesanti e leggeri affinché la giovane moglie non dipendesse subito dal consorte; infatti il costume di quei tempi relegava la donna coniugata a casa per curare la famiglia e l’ educazione dei figli. Una settimana prima delle nozze avveniva la “stima". I familiari dello sposo con i parenti più prossimi si recavano a casa della fidanzata per verificare la qualità e quantità della dote. Si approntava una stanza dove tutta la biancheria era "spasa” su tavoli, mentre le stoffe ed i "truscelli" di tela venivano appesi ad assi che percorrevano l’ambiente per tutta la sua lunghezza. I genitori della ragazza avevano, nel frattempo, provveduto a redigere in due carte da bollo l’elenco dettagliato dell’intero corredo. Un documento rimaneva a loro, una ricevuta veniva consegnata al futuro marito. Infatti, se si fosse verificata la malaugurata ipotesi di morte per parto della sposa, o comunque prima che questa avesse avuto un figlio, tutto sarebbe tornato alla famiglia d’origine; se viceversa, tutto sarebbe rimasto al marito.
Ma la fatica e le preoccupazioni femminili non si esaurivano nel riempire i bauli delle figliole di "centu de’ ‘gni co’". Le solerti massaie durante la buona stagione andavano in campagna a procurarsi il cibo per l’inverno, "spigavano" il grano, raccoglievano il granoturco. Il pane dei poveri era la polenta, i legumi e le "fojie" si mangiavano quasi sconditi, perche il fiasco d’olio doveva durare quaranta giorni. Adesso "l’erba de campu" con la piadina è una sciccheria! Quando pescavano le "sciabeghe", le numanesi passavano per marina e, oltre che procurarsi un po’ di pesce raccoglievano, per farne un gustoso pasto, i “bumbarelli" che si trovavano sugli steli delle "gardarelle" le quali crescevano, a quei tempi, ai margini della spiaggia fra la ghiaia.
Anche il lardo, bene prezioso, veniva risparmiato; era conservato sopra un armadio o sulla cornice del camino per preservarlo dalle grinfie del gatto che, presente in ogni famiglia a difesa dai topi, entrava ed usciva indisturbato dalla “gattarola". Molto spesso, qualche componente la famiglia, proprio per fame, mangiava un tantino della squisita "panzetta" accusando poi il felino del misfatto. Per avvalorare la sua versione, faceva trovare in frantumi il piatto sul quale era stata riposta la pregiata "cottiga".
Con le piene del fiume "Muscio’" arrivava sulla riva del mare molta legna di piccolo taglio che, riunita in "mucchi" per farla asciugare, sarebbe stata usata in inverno, insieme al "gambulo"’, per il riscaldamento. In realtà però, la "fascina" più che calore produceva fumo. Erano tempi di fame "nera" e spesso si andava a letto digiuni. Non era raro che, per far credere ai vicini che si stava preparando la cena, si accendessero il camino o i fornelli della "rola" anche se, in verità, non c’era niente da cuocere. Poi, per ingannare eventuali visitatori, si preparavano i piatti e si sporcavano di pomodoro
per dimostrare che il pasto era stato consumato. Spesso il misero companatico consisteva solo in una mezza crescia cotta sul "panaru", perché l’altra metà era destinata alla colazione e nessuno la lasciava in cucina per timore di non trovarla più il mattino successivo, tanto era il comune appetito domestico. D’inverno una mela, la cui riserva era custodita sotto il letto o sopra l’armadio, ed un tozzo di pane dovevano essere sufficienti per un pranzo. Si racconta che un non bene identificato “Marzucchì" con una prole particolarmente numerosa, per impedire che qualche componente il gruppo familiare si appropriasse delle salsicce appese ad asciugare, usasse numerarle. Un giorno, dopo il controllo quotidiano se ne uscì dicendo: "Chi ha magnatu el sette e l’ottu, che el nove el dieci ancora ‘ndingula?".
Durante la stagione fredda i più "ricchi" indossavano calze di lana pecorina sferruzzate in casa dalle donne. Chi non poteva permettersele, per ripararsi dal gelo, metteva, tra il piede e lo zoccolo, della paglia che buttava via quando era marcia vantandosi poi di non lavare i "pedalini", quando erano sporchi, ma di sostituirli con i nuovi.
Nonostante il bisogno e l’indigenza, i nostri nonni erano sempre sereni, felici, non si lamentavano mai; quando non ne potevano più mormoravano "Sia fatta la volontà di Dio!".
Ma la fatica e le preoccupazioni femminili non si esaurivano nel riempire i bauli delle figliole di "centu de’ ‘gni co’". Le solerti massaie durante la buona stagione andavano in campagna a procurarsi il cibo per l’inverno, "spigavano" il grano, raccoglievano il granoturco. Il pane dei poveri era la polenta, i legumi e le "fojie" si mangiavano quasi sconditi, perche il fiasco d’olio doveva durare quaranta giorni. Adesso "l’erba de campu" con la piadina è una sciccheria! Quando pescavano le "sciabeghe", le numanesi passavano per marina e, oltre che procurarsi un po’ di pesce raccoglievano, per farne un gustoso pasto, i “bumbarelli" che si trovavano sugli steli delle "gardarelle" le quali crescevano, a quei tempi, ai margini della spiaggia fra la ghiaia.
Anche il lardo, bene prezioso, veniva risparmiato; era conservato sopra un armadio o sulla cornice del camino per preservarlo dalle grinfie del gatto che, presente in ogni famiglia a difesa dai topi, entrava ed usciva indisturbato dalla “gattarola". Molto spesso, qualche componente la famiglia, proprio per fame, mangiava un tantino della squisita "panzetta" accusando poi il felino del misfatto. Per avvalorare la sua versione, faceva trovare in frantumi il piatto sul quale era stata riposta la pregiata "cottiga".
Con le piene del fiume "Muscio’" arrivava sulla riva del mare molta legna di piccolo taglio che, riunita in "mucchi" per farla asciugare, sarebbe stata usata in inverno, insieme al "gambulo"’, per il riscaldamento. In realtà però, la "fascina" più che calore produceva fumo. Erano tempi di fame "nera" e spesso si andava a letto digiuni. Non era raro che, per far credere ai vicini che si stava preparando la cena, si accendessero il camino o i fornelli della "rola" anche se, in verità, non c’era niente da cuocere. Poi, per ingannare eventuali visitatori, si preparavano i piatti e si sporcavano di pomodoro
per dimostrare che il pasto era stato consumato. Spesso il misero companatico consisteva solo in una mezza crescia cotta sul "panaru", perché l’altra metà era destinata alla colazione e nessuno la lasciava in cucina per timore di non trovarla più il mattino successivo, tanto era il comune appetito domestico. D’inverno una mela, la cui riserva era custodita sotto il letto o sopra l’armadio, ed un tozzo di pane dovevano essere sufficienti per un pranzo. Si racconta che un non bene identificato “Marzucchì" con una prole particolarmente numerosa, per impedire che qualche componente il gruppo familiare si appropriasse delle salsicce appese ad asciugare, usasse numerarle. Un giorno, dopo il controllo quotidiano se ne uscì dicendo: "Chi ha magnatu el sette e l’ottu, che el nove el dieci ancora ‘ndingula?".
Durante la stagione fredda i più "ricchi" indossavano calze di lana pecorina sferruzzate in casa dalle donne. Chi non poteva permettersele, per ripararsi dal gelo, metteva, tra il piede e lo zoccolo, della paglia che buttava via quando era marcia vantandosi poi di non lavare i "pedalini", quando erano sporchi, ma di sostituirli con i nuovi.
Nonostante il bisogno e l’indigenza, i nostri nonni erano sempre sereni, felici, non si lamentavano mai; quando non ne potevano più mormoravano "Sia fatta la volontà di Dio!".
tratto da "mia cara Numana de 'na volta" di Liberato Drenaggi
Commenti
Posta un commento